Ma il Concilio di Gerusalemme fu eminentemente critico anche sotto un'altra ragione, perché separò per sempre il giudizio teoretico dal giudizio pratico, quello che si porta sui principii e quello che si porta sulle applicazioni piegando, non i principii, ma la mediazione dei principii alle pieghevoli situazioni, piegatura che nella religione si fa sotto l'inspirazione della carità. Infatti il celebre affrontamento di Paolo a Pietro seguito in Antiochia dopo che a Gerusalemme i due Apostoli si erano trovati concordi nel ritenere la legge giudaica antiquata cioè superata, si aggirava, come dice Tertulliano, su «conversationis vitium, non praedicationis» (De praescript. haeret., 23), sulle deduzioni dal principio, non sul principio. Fu la prassi di Pietro condiscendente alla sensibilità rituale dei fratelli venuti dalla Sinagoga, prassi difforme da quella del medesimo Pietro verso i fratelli venuti dall'idolatria, quella che fu riprovata da Paolo e poi, come si vide, da Pietro e dalla Chiesa tutta. Sono dispareri sulla condotta pratica e, se si vuole, errori derivati dal non vedersi sùbito o non vedersi bene il nodo tra un principio e un concreto storico. Sono dispareri ed errori quali si perpetuarono nella Chiesa, da Pasquale II, che disdice il concordato sottoscritto con Enrico V, a Clemente XIV, che sopprime la Compagnia di Gesù e rovescia il non possumus degli antecessori, a Pio VII che ritratta gli accordi con Napoleone e si accusa pubblicamente di avere dato scandalo alla Chiesa e da sé stesso si punisce astenendosi dal celebrare la Messa. Questa distinzione della variabile sfera disciplinare, giuridica e politica da quella invariabile del porro unum est necessarium è certamente iniziata nel Concilio di Gerusalemme e costituisce la prima crisi della Chiesa: la sfera della storicità viene definitivamente distinta da quella del dogma.
Dal paragrafo 12 di Iota unum.
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